Sto leggendo un breve racconto scritto da una figlia, impotente di fronte alla richiesta della madre ricoverata, di essere portata a casa. Leggo e sto male. Leggo e ritorno a tanti anni fa. Il ricovero, obbligato, di mia mamma in una struttura.  Però,  non era lei a soffrire, ero io. Ci vollero la fermezza di mia sorella, molto più lucida di me, le parole dei medici, perché accettassi il tutto. 
Eppure ero consapevole che era quella l'unica soluzione, ma non riuscivo a metabolizzarla.  Avevo vissuto i suoi momenti di panico, quelli che capitavano quando perdeva il senso del tempo, della realtà, quando la dovevo abbracciare stretta perché non si facesse male. La osservavo quando mi faceva discorsi incredibilmente lucidi sulla religione, ad esempio, che non me la facevano riconoscere, per poi chiedere la lettura di riviste misconosciute di gossip spicciolo. Viveva una sorta di bipolarismo.  Ricordava le letture giovanili degli scrittori russi, quanto amava lei, Anna Karenina, i fratelli Karamazov e poi  Guerra e Pace? Così aveva conosciuto diciassettenne l'amore della sua vita, papà, con una frase del libro di Tolstoj, letto in treno verso Milano  Lui era sempre nei suoi discorsi. Poteva confondere me con mia zia, non ricordarsi cosa avesse fatto due minuti prima, ma lui era sempre nei suoi pensieri. 
Il ricovero necessario, dunque. Lei serena. Viveva come se si trovasse in albergo. Le piaceva essere servita, accudita. Esigeva il rossetto, il profumo, i capelli in ordine, anche piccoli gioielli da esibire, le scarpe comode, beh, era quello da sempre il suo modo di essere.  Il reparto,  era diventato il suo condominio: se faceva piccoli lavoretti di disegno, era sicuramente la più brava. La sua camera con le  piccole cose personali, le nostre fotografie, una piccola giostra a carillon, i libri d'amore sugli scaffali, gli harmony, che continuava a rileggere: ne compravo in quantità ai mercatini dell'usato,  perché non riuscivo a stare dietro alle sue richieste. Non so cosa capisse, non lo domandavo, era contenta e mi bastava quello. A volte chiedeva della sua casa, ricordava i fiori che aveva sul balcone, ma raramente, mentre più facilmente diceva alle sue sorelle, che da lì non si sarebbe mossa. Dal reparto n9n voleva e non poteva uscire,  se non accompagnata e allora gradiva il gelato, la cioccolata, la passeggiata nel cortile, ma di fretta, perché preferiva ritornare su, nel,suo condominio. Al sicuro. Ci voleva bene, continuava a dire, a rassicurarci, ma era meglio che tornassimo a casa. 
Lo strazio, il mio, ogni volta che la salutavo
Nonostante tutto. 
Con il timore che la volta successiva potesse non ricordarsi più di noi. 
Non è successo, passava il tempo e sembrava recuperare i ricordi, ma era spaventata, a volte annoiata da tutto. 
Voleva solo tornare da lui, con lui









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