CONSUETUDINI
Non è necessaria alcuna sveglia, non ce ne sarebbe bisogno comunque: non ho impegni lavorativi, né di alcun altro tipo, se non quello di portare fuori il cane, ma c'è ancora tempo.
È presto, troppo. Potrei dormire e invece il mio cervello elabora pensieri, gigioneggiando su varie ed eventuali.
Vale la pena alzarsi. In bagno, lo specchio rimanda la solita massa di capelli anarchici; li ho tagliati molto corti, ma sprizzano disordine da ogni follicolo. Prendo la spazzola e cerco di dare loro una nuova dignità, per quel che dura. Spazzolino, con poco dentifricio. Voglio togliere dalla bocca "il sapore della notte" e penso a Nantas Salvalaggio che quella frase l'ha scritta in uno dei suoi romanzi, che mi strappavano spesso una risata.
Dovrei sorridere di più. Sul mio volto non ci sono rughe, ma due tagli all'ingiù, vicino alla bocca. Se sorrido, svaniscono. Vorrei lavarmi la tristezza e mettere un rossetto rosso. Mia zia, lo ha sempre fatto: prima della doccia, della colazione, prima di uscire dal bagno per affrontare la giornata, si pittava le labbra di rosso, a voler dire al mondo che era pronta.
Mia mamma, sua sorella, invece no, come me, silenziosa nella mattina. Avvolta nella sua vestaglia, seduta sotto la finestra, non uno sguardo fuori, la moka da tre tutta per lei e la prima sigaretta. Nessuna parola, se non un sospirato "buongiorno". Avrebbe atteso l'uscita di marito e figlie per avere il bagno finalmente a sua disposizione. Consuetudine mantenuta sino alla fine, quando ancora a casa, prima del definitivo ricovero, attendeva una signora che l'aiutasse a fare il bagno, profumato di talco. Poi sorrideva.
Arrivo in cucina, preparo la terapia quotidiana, dividendola per orari nell'apposito contenitore: è l'unica cosa ordinata e attenta che faccio, anche se è più la meccanicità dell'abitudine, che altro.
Accendo il gas per il bollitore: dopo l'ennesimo corto di quello elettrico, ho comperato un vecchio solido bollitore a gas, con una bella forma panciuta, che ricorda quelli che si tenevano sulle stufe a legna. L'ambiente non è ancora caldo; il riscaldamento centralizzato partirà più tardi, ma sono a piedi scalzi, maglietta e pantaloncini. Prendo la felpa e penso che ho svariate vestaglie, che potrei indossare, invece di quella eterna tenuta da ragazzina, che non sono da decenni, ma sono comoda cosi. Più tardi una tuta prenderà il posto dei calzoncini.
Scosto le tende e intravedo, sul balcone, la sagoma del pitosforo. Le foglioline sembrano lucide di pioggia. Appoggio la fronte ai vetri, come facevo da bambina. Non sono freddi, non sono umidi, non posso disegnare cuoricini fra la condensa. Sono vetri termici, iper evoluti, ecologici alla massima potenza, ma mi mancano quegli scarabocchi che con un nulla sparivano e con un'alitata ricomparivano. Mi manca la sgridata materna, perché i vetri non si dovevano sporcare.
Il fischio del bollitore mi riporta alla realtà, il cane mi guarda silenzioso, ma capisco che vuole uscire, sul balcone, a respirare l'aria che profuma di pioggia. Non abbaia, è un terrier introverso e cazzoso come me e al mattino a noi, piace il silenzio.
Due biscotti, rigorosamente integrali, un niente di caldo, le prime due compresse e ritorno a letto. Winston, il terrier mi segue. A lui chissà che sogni, per me la lettura della rassegna stampa on line e qualche cazzeggio su FB, mentre il mio compagno di vita è ancora immerso nel sonno.
Fra un po' la città si risveglierà, nel condominio i soliti domestici rumori, prenderanno,lo spazio,della quiete.
A me, verrà finalmente voglia di dormire, .ma non sarà più tempo. Dovrò uscire con il peloso e indosserò un velo di rossetto, non così rosso come quello della zia, ma trasparente e cercherò di dare colore al mio, un po' triste, sorriso.