PENOMBRE PADANE

Alle torridi estati padane di un tempo, quelle in cui si vedeva l'asfalto ubriaco fluttuare, si doveva pur trovare rimedio.
In mancanza dell'aria condizionata giravano, dove possibile, rumorosi, vetusti, ventilatori o pale appese ai soffitti.
Nelle chiese, pur sempre fresche, i ventagli delle signore: mia mamma ne aveva una collezione. Credo ne avesse per casa, uno sgualcito, invece elegante da usare fuori, magari in pendant con gli abiti. Anche uno decorato con immagini di santi,  quelli da invocare quando proprio non ce la si faceva più e anche pregare  era fatica . Comunque uno in ogni borsa sicuramente.
Poi le persiane, le tapparelle chiuse o abbassate, in modo da creare la penombra: "fà no vegn indrèn el sùl"! Non fare entrare il sole! Un mantra. 

Le porte delle case,  affacciate sui cortili, avevano tende colorate a nascondere dalla luce il chiacchiericcio sonnolento delle donne. 
Nei negozi si entrava fendendo le tende a perline o a strisce di gomma, quelle scacciamosche, che  erano belle per giocarci, mentre sulla vera utilità ho dei dubbi.

Anche i vecchi bei portici del mio paese, venivano oscurati da appositi tendoni; nelle foto più antiche, si intravedono bianchi e svolazzanti, mentre in quelle più recenti, rigidi e rossi, o meglio rossastri, visto che il sole sbiadisce i colori.
Dietro a cercare riparo dal caldo, uomini seduti ai tavolini dei caffè,  fra un bicchiere di vino fresco e una birra "cun la gasûsa", a gazzosa,  strano cocktail vintage, che dicevano dissetante. 

Dopo anni, dopo aver cambiato città, regioni e case, continuo, nonostante tutto, a mantenere l'abitudine degli scuri chiusi, "badadi", delle tapparelle abbassate.
Chiudo fuori l'estate, la luce accecante, cercando nel chiaroscuro una tregua per gli occhi e per i pensieri.

Ho davvero la penombra padana nel DNA.



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