IL MIO BIG C

THE BIG C


Era il 1986. Chiara aveva cinque anni e da quattro abitavamo a Chiavari. 
Da tempo mostravo segni di malessere, che venivano imputati all'ansia: le analisi del resto erano normali, a parte una lieve alterazione della VES, finchè mi accorsi di un nodulo fra la base del collo e la spalla. Il medico decise di fare accertamenti e dalla RX toracica, si evidenziò una grossa palla bianca, dimensioni di un pompelmo, nel mediastino. Bisognava intervenire in qualche modo e l'unica cosa da fare, al momento, era cercare di analizzare il linfonodo sentinella. Primo intervento all'ospedale di Lavagna, ma il chirurgo non si sa bene cosa tolse, perché la biopsia risultò negativa. 

Iniziò il lungo peregrinare fra medici, pneumologi, internisti vari, senza che se ne venisse a capo. Si sospettava, ma i sospetti non potevano guarirmi, se non si fosse capito di cosa soffrissi. Storditi, e incapaci di realizzare in pieno la situazione, fra lacrime, viaggi continui dei miei genitori, solidarietà degli amici liguri e il nostro pendolarismo verso Genova e le sue eccellenze mediche, mi ritrovai in una clinica per un intervento di mediastinoscopia. Anche qui la biopsia, non dava indicazioni certe. Ci consigliarono di portare i vetrini a BorgoTrento, Verona, da quello che veniva considerato il miglior patologo dell'epoca. 

Andammo, Giamba e io, in treno, perché una bufera di neve, aveva bloccato i Giovi e l'uso dell'auto era sconsigliato. Il patologo, senza dubbi, confermò i sospetti iniziali: si trattava del Linfoma di Hodgkin, anche se per la stadiazione e la diagnosi certa, era necessario sottopporsi ad altri due interventi. 
Nuovamente nelle mani del bravo chirurgo genovese, nuovamente in clinica, questa volta venne tolto il vero linfonodo. Ora era possibile dare certezza al nome, ma non alla stadiazione. Solo una nuova TAC e la linfografia, fatta inserendo liquido di contrasto, attraverso due aperture al collo dei piedi, avrebbero dato dopo mesi la possibilità di avviare le giuste cure. 
Ci affidammo al Prof. Marmont di Genova, allora direttore dell'Istituto Oncoematologico del San Martino di Genova. Il giorno del mio 31 compleanno, mi confermò che si trattava proprio di Hodgkin, sicuramente curabile, stadiazione  II, asintomatico: per lui un regalo per il mio compleanno. Tre giorni dopo,  sempre al San Martino, iniziai le cure. 6 cicli di chemioterapia, seguiti da 35 mantelline di radioterapia. 

Stavo sempre male, vomitavo in continuazione e Chiara, che intanto frequentava l'ultimo anno dell'asilo, cominciava a mostrare segni di insofferenza. Del resto, passava dai nonni alla casa di  amici, che avevano fatto cerchio intoro a noi, e mi vedeva sempre più debole. 
Decidemmo, dopo averne parlato con la direttrice della sua scuola, una suora disponibilissima, di tenerla a casa, con me. La cosa la rassicurò.

I mie genitori si erano praticamente trasferiti a casa nostra e lei sarebbe stata seguita a tempo pieno da mio papà, felice di questa incombenza, Intanto si era arrivati all'estate, alla mia ultima chemio, ma i miei globuli bianchi erano scesi a 600. Uno starnuto poteva uccidermi. 
Venni rinchiusa in casa, allettata, senza poter vedere praticamente nessuno. I medici del reparto oncologico, si scusarono: l'ultima chemio non doveva essere somministrata. Già dopo il primo ciclo, il tumore era in totale remissione e loro avevano applicato il protocollo originale, senza tener conto di quella che chiamarono "farmaco Sensibilità".
Già, durante una seduta, un farmaco fuoriuscì dalla vena, e mi bruciò le guaine dei tendini e sa Iddio cosa: mi ritrovai con un braccio gonfio e dolorante, che diede problemi anche nel futuro.
 A loro discolpa, va detto, che erano anni in cui l'approccio terapeutico non era ancora personalizzato. Quelle erano le cure e quelle andavano fatte, senza se e senza ma. 

Mi ripresi e mi mandarono a riossigenarmi in montagna, prima di intraprendere la radioterapia. Ad agosto, iniziò l'altro step.
Mr.Gi, che mi accompagnava alle cinque di ogni mattina a Genova, per poi lasciarmi nelle mani dei miei e ritornare a mandare avanti una filiale, si collassò per la stanchezza e sicuramente per le preoccupazioni. Fra i mille controlli, imposero a me, e poi a lui, una serie di sedute di psicoterapia di sostegno; non so fino a che punto ci fu utile. Sicuramente, continuai e continuo a chiedere scusa, per le sofferenze causate a lui e alla mia famiglia. Mi sentivo colpevole per essere stata colpita dal BIG C, e non vittima. 

La radioterapia, spazzò ogni eventuale rimasuglio di cellule ingrate, ma mi sbriciolò i denti, mi fece perdere i capelli, mi bloccò l'uso delle corde vocali, e ciliegina sulla torta, mi lesionò le coronarie, per cui anni dopo, fui costretta a un intervento di angioplastica, Questa è comunque storia recente e attuale, e le cure in atto, dureranno tutta la vita.

Paura? Non piango più, mi sono prosciugata. Ho chiesto ad ogni medico di mia conoscenza se ci fosse la possibilità che mia figlia potesse sviluppare la stessa malattia, ma rispetto ad altre forme tumorali, il linfoma non è ereditario, non si trasmette. Fine della paura.

Ogni giorno, intanto sembra ci si debba preoccupare per altro, per chi sta combattendo, per chi ce l'ha fatta, ma si sente ancora ostaggio e per chi non ce la farà, ma spera e io con loro, sempre 




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